Se c’è una cosa che Angelina Jolie sa fare bene è strabuzzare gli immensi occhioni e mettere in evidenza la sua procace femminilità di discendente diretta di Venere. Nulla di cui vergognarsi, ha vinto un Oscar per Ragazze Interrotte in cui la disagiata la faceva bene (quindi è brava) e la sua Lara Croft nei due episodi di Tomb Raider non ha nulla di così vuoto che molti hanno evidenziato. Ammiccare, menare le mani e salvare il globo: questo doveva fare, e questo ha fatto. Caparbia in questa sua missione divina, nella vita la Jolie oltre a fare l’attrice è attiva ambasciatrice dell’UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), e ha ritenuto doveroso elencarci di quali e quanti problemi un mondo a noi fortunati fortunatamente distante soffra e continui a soffrire nonostante l’impegno di organizzazioni importanti come quella di cui fa parte. Ecco allora spuntare Amore senza confini, strappalacrime drama-movie sceno(geo)grafico su una donna che, sconvolta dall’incontro con un affascinante dottore ribelle (Clive Owen) impegnato in missioni umanitarie in nazioni dilaniate dalla guerra, in dieci minuti molla baracca (una casa stupenda in quel di Londra) e burattini (un marito mollaccioso e pargoli perfettini) per seguire la sua buona azione ed amarlo in Africa, in Cambogia e infine in Cecenia, dove per salvarlo da una morte certa morirà lei stessa su una mina anti-uomo. 
Per un recensore rivelare il finale non è meno immorale che per un costumista vestire la Jolie in elegante pastrano bianco con cappello in tinta e occhiali da sole solo per soccorrere un malnutrito bambino di colore. E stroncare questa risibile ennesima delusione di Martin Campbell, probabilmente ancora inebetito dal freddo patito in Vertical Limit, non è meno superfluo dell’averlo infarcito di un bieco pietismo da opuscolo per suscitare compassione. Quindi non lo faremo, anzi vi invitiamo a correre in massa al cinema per due buoni motivi: primo, perché coi soldi del biglietto si dona un euro al progetto “Latte per la vita” a favore dei bambini africani nei campi profughi (questa sì che è una buona azione); secondo, perché non capita spesso che la nobile propaganda venga servita su un piatto così grossolanamente cucinato, e indigesto anche per un affamato nigeriano.

di Francesco De Belvis