
È la violenza del quotidiano quella mostrata nell’esordio cinematografico di Mohamed Asli, già produttore esecutivo di Marrakech Express e Il segreto del Sahara; l’immobilità del vivere provata da chi non ha nulla per “muoversi” socialmente in una città come Casablanca dove la povertà non è relativa ma assoluta. A Casablanca gli angeli non volano, film proposto lo scorso anno durante la ‘Semaine de la Critique’ di Cannes, è la storia di tre amici tutti impiegati in un ristorante: Ottman non pensa ad altro che al suo unico bene, un cavallo che ha lasciato alle cure della madre e a cui manda appena può del pane secco; Ismail ha una vera e propria ossessione per un paio di scarpe costose che ha visto in una vetrina e Said non ha altri pensieri che per la sua famiglia, la moglie Aicha e i figli, in lotta per sopravvivere al freddo delle montagne. «Una diagnosi della realtà in un luogo dove esiste una violenza che neppure pensavamo potesse esistere» la definisce il suo regista che esprime con ripetitività visiva e dialogica i concetti di povertà e degrado presenti in sovrabbondanza nel film.
La narratività di Asli diviene a poco a poco ossessiva come le lettere di Said, lette a mo’ di litania, ma c’è anche la conseguenza dell’inurbamento che infreddolisce, paralizza. Il finale prevedibile non fa perdere valore all’opera prima di un artista degno della nostra attenzione, non foss’altro che per il fatto di essersi formato in Italia. È facile infatti trovare in questa pellicola tracce del neorealismo di Rosi, impiegato in un urlo disperato verso un realismo sociale scomodo, necessario, grottesco, dove anche i sogni perseguiti divengono un confronto con la proria solitudine: quando Ottman riesce a portare il suo cavallo in città, poi lo libera con il cuore spezzato. Per l’Italia che fa scuola c’è qualche buon allievo che si impone con la propria identità e coscienza sociale.