È un film vero, quello di Eugenio Cappuccio, uno di quelli in cui ci si può ritrovare, uno di quelli che fanno arrabbiare o quantomeno lasciano con l’amaro in bocca. È uno di quei film che molta critica ama definire “rinascita del cinema italiano”. Personalmente preferisco definirli film intelligenti, con dentro un’anima e sicuramente qualcosa da dire. Girato proprio per benino da un regista che nel nostro panorama è ancora giovane e che supponiamo abbia ancora diverse cartucce da sparare. Volevo solo dormirle addosso è molto più claustrofobico di molti film dell’orrore. Il protagonista, Marco Pressi, è in trappola: tutto quello che ripete continuamente per dar forza alle persone improvvisamente gli si rivolta contro in maniera spietatamente ironica. I complimenti sono acidi, la frase ricorrente “Ti stimo molto” diventa una sorta di tic nervoso che ripete a chiunque, svalutandola. Persino alla madre, probabilmente anche al suo cane, se ne avesse uno.

Ma Marco Pressi è solo. È un aziendalista convinto, uno con il logo della società come screensaver, uno che sul biglietto da visita dovrebbe aver scritto, sotto al nome, “Involontaria testa di cazzo”. È una vittima della Milano da bere, delle sfere di competenza, delle formazioni aziendali e tutte quelle stupidaggini che le ricerche di mercato vogliono farci credere, uno di quelli con il vestito firmato e l’aria sicura, ma che poi hanno il frigo vuoto a casa perché non hanno tempo né voglia di fare la spesa. E poi tutto gli si ritorce contro, tutto si ribalta. Giorgio Pasotti è davvero bravo nel lasciare che si vedano le vene che pulsano sulle tempie, i segni evidenti di un esaurimento, di un’esplosione soffocata sottopelle, appena appena sotto la superficie e per questo malcelata. È davvero sensibile Pasotti nel delineare tutte le sfaccettature di un personaggio complesso, con tutto un mini-mondo-azienda intorno, che non sa più chi e se ascoltare. Sarà pure crudele, il suo Marco Pressi, a licenziare venticinque persone. Ma almeno lui lo fa guardandoli negli occhi. C’è chi si limita a comunicarlo via e-mail, con un mese di anticipo, senza spiegazioni.

di Federica Aliano