Un funerale, un gruppo di amici, lacrime, tristezza. All’improvviso uno dei presenti finge di ricevere una telefonata: «Sei tu?» dice l’uomo pronunciando il nome del defunto. Tutti ridono. E la banda comincia a suonare la musica preferita da Schultze. Non è una macabra barzelletta ma la “felliniana” scena finale di Schultze vuole suonare il Blues del tedesco Micheal Schorr, vincitore del “Premio speciale per la regia” all’ultimo Festival di Venezia, nelle sale italiane dal 30 aprile. Il film racconta la storia di Schultze (Horst Krause) che per anni ha vissuto in un piccolo paese nella regione di Mansfeld dividendosi tra il lavoro (insalubre) in miniera, la birra con gli amici Manfred (Karl- Fred Müller) e Jürgen (Harald Warmbrunn), il piccolo orto (con le statuette dei sette nani che ricordano quelle di Full Monty), la musica popolare e la pesca con la lenza. Improvvisamente la tranquillità della sua routine quotidiana viene rotta da un inatteso prepensionamento. Nasce la sensazione di essere ormai considerato inutile dalla società e lo spettro della depressione. Per fortuna c’è la musica. Schultze, seguendo la tradizione di famiglia, suona infatti la fisarmonica. Ma a dare una scossa al suo modo di suonare sarà la scoperta del Blues che lo indurrà ad abbandonare la Polka e a volare verso l’America del Sud dove l’incontro con le melodie, che fino ad allora aveva solo ascoltato alla radio, sarà per lui… fatale! Una pellicola divertente e malinconica, poetica e piena di umorismo, genuina e amara. Il film, che a tratti ha una chiara impronta documentaristica (a riprova del passato professionale del regista), deve la sua freschezza e la sua spontaneità anche alla scelta di non usare attori professionisti (a parte i tre personaggi principali) ma di coinvolgere nelle riprese solo gente comune. Forse non piacerà agli appassionati dei film d’azione ma Schultze vuole suonare il Blues sarà amato da chi si lascia guidare dalla calma delle inquadrature che si soffermano sui particolari. La telecamera, per esempio, indugia più volte sull’enorme cumulo di materiali di scarico della miniera, simbolo delle malattie polmonari che uccidono i minatori; sulla foto in bianco e nero che ritrae il padre di Schultze mentre suona la fisarmonica e che col suo sguardo sembra non perdonare il figlio che rinnega la musica tradizionale per preferire quella degli Yankee; sulle facce di chi si lascia andare alle danze nelle isolate taverne degli Stati Uniti del Sud. E, a proposito di facce, è indimenticabile quella del protagonista (e del personaggio che c’è dietro), più eloquente di miliardi di discorsi. Il fatto che Schultze sia un uomo di (davvero) poche parole non annoierà affatto il pubblico.

di Patrizia Notarnicola