Il film di Margarethe von Trotta esce in Italia nel giorno della Memoria, ovvero quando fu liberato il campo di Auschwitz, ormai passato alla storia come il Lager per antonomasia, il luogo sistematico di sterminio che solo con una parvenza di razionalizzazione riusciamo a concepire, ad accettare, sia pure dolorosamente, come un incubo della Realtà storica. La von Trotta non scimmiotta le pellicole oltreoceano e catalizza la sua attenzione su una storia piccola, subito dopo la disfatta nazista a Stalingrado. Tra il 27 febbraio e il 6 marzo 1943, un gruppo di donne ariane che avevano accettato l’onta di un matrimonio misto con un “giudeo”, si ritrovano a Rosenstrasse, in un edificio diventato un campo profughi, per reclamare mariti che avrebbero rischiato la deportazione. Il freddo, il gelo e l’attesa vengono ricordati attraverso flashback da parte di Lena, ormai anziana, disposta a ricordare tutto, a superare la barriera del silenzio attraverso le confessione fatte a Hannah, la figlia di Ruth che lei aveva salvato da morte certa. Il mix tra presente e passato prossimo si snoda in questa accolita femminile che si stringe attorno al ricordo o alla rimozione. Il doppiaggio italiano penalizza una pellicola che fa della narrazione, delle parole e del grido un punto di forza e la rende un poco simile a una fiction televisiva raffazzonata. Anche la bravura delle attrici (Coppa Volpi all’ultimo Festival di Venezia a Katja Riemann, nei panni di Lena giovane) è annacquata da un plot che ferisce, ma non convince del tutto. Lo storico tedesco Wolfang Benz ha addirittura accusato la von Trotta di falsificazione storica, facendo credere che Goebbels avrebbe ordinato di liberare gli ebrei di Rosenstrasse perché sedotto e irretito dalla bellezza della protagonista Lena/Katja Riemann; in effetti, nella lunga sequenza al night, è difficile capire dove finisce la disperazione della donna o inizia la tela di ragno intorno al potentissimo e terribile uomo della propaganda nazista. L’interezza dell’orrore sfugge alla regista, magnifica a tratteggiare le sue storie al femminile, ma, ahinoi, incapace di incanalarle in un quadro più generale senza suscitare perplessità o disappunto. Film, dunque, necessario, importante, assolutamente da vedere, ma stilisticamente irrisolto e, spiace dirlo, spesso alla umana compassione della vicenda si mescola una cinica, disprezzabile quanto si vuole, sensazione di noia.

di Vincenzo Mazzaccaro