Presentato a Cannes 2004 nella sezione “Quinzaine des Realisateurs”, il terzo lungometraggio di Andrés Wood ha una caratura fortemente autobiografica. Siamo nel 1973, durante gli ultimi mesi di governo di Salvador Allende, prima del suo suicidio che portò alla dittatura militare di Pinochet e si presume che nella storia di un’amicizia speciale tra un undicenne dei quartieri alti di Santiago, Gonzalo, e Pedro Machuca, stessa età, un indios che vive ai margini della città, ci siano delle reminiscenze di un Wood di otto anni che ricorda un periodo in cui due ragazzi di diversa estrazione sociale potevano frequentare la stessa scuola. Una delle migliori della capitale, gestita da un prete americano, Padre McEnroe, fervente nel credere alla commistione tra idee socialiste ed egualitarismo cristiano. Gli avvenimenti politici, la crisi economica, le tensioni sociali fanno da sfondo a questo rapporto amicale, che non ha reali sbocchi futuri e si adagia nell’immediatezza delle piccole liti, la scoperta della sessualità con la complicità di Silvana (le sequenze dei baci al “latte condensato” potrebbero far venire alla mente dello spettatore The Dreamers di Bertolucci, ma, qui, per anagrafe e sincerità stilistica, non c’è morbosità tanto meno compiacimento…).

Le scelte personali dei genitori, poi, sono decisive per tracciare confini invalicabili, per sbarrare sogni di un particolare momento storico e la madre di Gonzalo, il suo attempato amante e il fidanzato della figlia maggiore hanno l’arroganza e la laida certezza di cadere sempre in piedi, reazionari per viltà, egocentrici per privilegi sciocchi che non prevedono promiscuità sociale, né umiltà di cuore (la manifestazione anti-Allende ricorda, da vicino, una parata pro America interventista di poco tempo fa. Stesse facce e stessi comportamenti, quasi a ricordarci che dopo più di venti anni si provano le stesse emozioni di sdegno). Essenziale e raffinato, il film scorre verso un finale già noto, amarissimo e la fotografia diventa via via sempre più cupa, ombrosa, quasi ostile. La qualità stilistica cade solamente in una eccessiva lunghezza di sottotrame che, ad un occhio smaliziato e forse cinico, fanno pensare ad una condensata fiction televisiva e il bravissimo Ernesto Malbrán, nelle vesti del prete “teologo della Liberazione”, ha due scene clou: una, indimenticabile, quando nella sua chiesa divora tutte le ostie consacrate in segno di protesta contro la dittatura che ha spazzato qualsiasi sogno “messianico”, l’altra, discutibile, che rimanda, come fanno troppo spesso le pellicole incentrate su adolescenti a scuola in qualsiasi luogo del globo, all’ineffabile e fin troppo scopiazzata pellicola di Peter Weir, ossia L’attimo fuggente.

di Vincenzo Mazzaccaro