Le sepolture di Melquiades Estrada sono tre e fanno da prologo e da epilogo. In mezzo, il viaggio dal Texas al Messico col morto da seppellire e con l’assassino da rieducare. E gli incontri: con il vecchio cieco che aspetta solo di morire perché ha perso tutto, con la guaritrice che è tornata a casa dopo aver tentato invano di attraversare il confine con gli Stati Uniti, col messicano in fuga, insomma con un’umanità brulicante in una aspra terra di confine, sospesa tra la durezza e il languore del semplice e misero vivere. Affresca così il texano Tommy Lee Jones in un sorprendente e suadente film d’esordio registico (anche se in tv ha già diretto), scritto insieme all’amico di caccia Guillermo Arringa (lo scrittore-sceneggiatore di Amores Perros ma anche di 21 Grammi), mescolando tempi, situazioni e, ciò che più conta, punti di vista, scompaginando in modo da calamitare ogni attenzione dello spettatore nel momento stesso in cui mescola le carte, annulla la logica lineare del racconto per crearne un’altra. Anzi più di un’altra. Per farci guardare con gli occhi dell’uomo indurito dalla vita ma pronto a tutto in nome dell’amicizia (l’unica cosa che gli resta) e dei desideri dell’amico morto ammazzato ma anche con gli occhi dell’assassino, ignorante e ottusa guardia di frontiera che ha ucciso per sbaglio, che non ha capito quasi nulla della vita, che impara molto dal viaggio fianco a fianco col morto che imputridisce, che impara costretto a indossare i suoi vestiti, a entrare nel suo mondo.

E per farci guardare con gli occhi del morto che partendo dal suo Messico in cerca di fortuna oltre il confine lasciava quel nulla che aveva ma portava con sé almeno un prezioso cartoccio di memorie inventate ma anche con gli occhi di tutti i personaggi che, strada facendo, si affacciano dalle loro vite per un solo momento. Abbastanza non per gridare ma per mostrare la minaccia che incombe su di loro: la valanga della consumistica cultura di massa che sta massacrando non solo gli americani ma anche tutti i poveracci che arrivano (magari clandestinamente) negli Stati Uniti, con un bagaglio culturale pronto a sciogliersi tra miserie e centri commerciali. «La mia vuole essere una requisitoria contro l’estremo materialismo americano, contro il consumismo e i suoi riti che stanno facendo a pezzi culture e mentalità, anche di tanti poveri messicani che passano il confine ma è anche un viaggio tra gli esseri umani, enormemente stupidi ma capaci di gesti straordinari e di crimini orrendi, tra esseri molto soli, anzi alienati» ha spiegato il regista che, però, questo ordinario miscuglio di splendore e stupidità lo ha tradotto nel film con dolente leggerezza.

Impresa ardua ma riuscita qui a meraviglia anche grazie alla sua capacità di miscelare comicità e tragedia, buio e luce, dolore e ironia, tenendosi in equilibrio su un filo sottilissimo tra gli uni e gli altri. Dura e rocciosa come i paesaggi che la avvolgono ma anche lieve e dolce come le acque che scorrono, non si dimentica, insomma, questa storia di un cowboy contemporaneo, di un morto e di un assassino per caso in viaggio verso un luogo identico a quello da cui sono partiti (anche geograficamente quel Texas e quel Messico sono lo stesso luogo semmai separato dal Rio Grande). Non si dimentica perché, come anche lo spettatore, il protagonista sa che in quei mondi che ci sembrano lontani siamo anche noi omologati e desiderosi di omologazione, imprigionati in questa cultura globale, bisognosi di un contatto con le poche cose per cui vale la pena di vivere e sa che «Guardare l’altra riva del fiume è vedere se stessi».

di Silvia Di Paola