Finalmente giunge anche in Italia, con circa due anni di ritardo rispetto all’uscita americana, l’ultimo film di Roger Avary tratto dal romanzo maledetto di Bret Easton Ellis The Rules of Attraction, sorta di analisi spietata dei vizi (tanti) e delle virtù (poche) di gran parte della gioventù americana universitaria moderna, composta da figli e figlie di papà i cui unici valori sembrano essere il Dio denaro, il sesso e, soprattutto, la droga in ogni sua forma, dallo spinello all’eroina, fino ad arrivare alle pasticche di ecstasy. Nel quadro generale che il regista offre allo spettatore non ci sono personaggi positivi, ma solamente vittime di una società oramai corrotta fino all’inverosimile, devastata dalla malattia forse oggi più temibile, la solitudine, a cui segue di conseguenza la totale incomunicabilità tra le persone. Gli unici barlumi di speranza vengono ben presto trasformati in episodi di disperazione e morte (si veda, ad esempio, il suicidio della ragazza bruttina innamorata del protagonista) e su tutto aleggia un’atmosfera di amarezza e pessimismo che spazza via con sé ogni cosa, ogni essere umano. Per ben sottolineare questa sensazione di generale spaesamento, il regista Avary apre il film con una sequenza dalla costruzione complessa e affascinante: egli, infatti, ci descrive tutti i personaggi partendo dalla loro presenza ad una festa collegiale, ma non lo fa nel modo tradizionale; utilizzando la tecnica dello stop e rewind egli è come se riavvolgesse la pellicola per tornare al punto di partenza e lì ritrovare un altro dei suoi personaggi da poter seguire e così presentare al pubblico. Questo particolare accorgimento fa sì che il tempo dell’azione rimanga come sospeso, incastrato in un continuo arrotolarsi su se stesso; ciò è sottolineato anche da un insistito uso dello split screen, da un montaggio serrato e da una colonna sonora che si ripropone invariata e martellante. Film di regia, dunque, più che d’interpretazione, anche se il giovane cast offre una prova in generale convincente e pur coraggiosa nel dipingere gli aspetti più sudici e sconvenienti di questa gioventù perduta. In particolar modo stupiscono le interpretazioni di James Van Der Beek, ben lontano dall’innocenza e dalla positività del ruolo di Dawson nel serial Tv Dawson’s Creek, e di Shannyn Sossamon, volto angelico dei film Il destino di un cavaliere e 40 giorni e 40 notti.

di Simone Carletti