Quando un regista comincia ad avere un numero di tre o quattro pellicole, allora e soltanto allora si può constatare, senza paura di risultare impressionistici, se ci si trovi di fronte ad un buon mestierante, anche acuto, ma in fin dei conti eclettico e attento più che altro alla buona costruzione di un film convenzionale, oppure di fronte ad un autore, con tutte le ambiguità e le incomprensioni che questo termine si porta dietro. Quando in una filmografia ancora acerba si cominciano a riscontrare quelle regolarità a livello tematico, figurativo, narrativo, nella costruzione dei personaggi e nelle soluzioni stilistiche, a questo punto è giusto che oltre a dare il giudizio al singolo film, il medio recensore si addentri nel progetto registico dell’autore di fronte al quale ora si trova e cerchi di carpirne (di anticiparne) le future evoluzioni. Questo è quanto viene di mente subito dopo la proiezione di questo Le avventure acquatiche di Steve Zissou, film imperfetto, ma tremendamente affascinante nonostante, o forse proprio per il carattere irrisolto dei suoi esperimenti. La filmografia di Wes Anderson comincia ad avere il numero di pellicole sufficienti (quattro), come accennavamo prima, per poterla valutare nella sua coerenza autoriale, prima ancora che nel valore dei singoli film, ed è per questo che, nel suo caso come in quello di altri cineasti autori, un’opera imperfetta e un po’ slegata può avere più carisma di molte altre pellicole in sé perfette, ma anodine per troppa correttezza. Ebbene dove sta dirigendo i suoi esperimenti registici il giovane director americano? Ad un primo sguardo sembrerebbe che Wes Anderson sia un cineasta molto attento alla parola, alla centralità dei dialoghi, tanto che forse uno dei pesi maggiori che impediscono al film di raggiungere completamente quella dimensione aerea nell’amarezza cui puntava Anderson, sta proprio nell’ eccessiva verbosità. Sì, è vero, ci troviamo di fronte a battute, la parola diventa gag, in perfetta connessione ritmica con un montaggio che svela continuamente le dissimulazioni, quando non le vere e proprie menzogne nascoste dietro il linguaggio, non ci si parla addosso (mica siamo in un film italiano), eppure la quantità dei dialoghi, pur orchestrati con molta abilità, alla fine quasi nasconde il film, lo mimetizza eccessivamente nelle sue intenzioni e lo appesantisce.

Anche I Tenenbaumera una pellicola in apparenza centrata su una sublime e divertentissima catena di dialoghi, ma lì ci trovavamo dalle parti della commedia sofisticata oppure di Woody Allen, il gioco reggeva, l’equilibrio era trovato senza difficoltà tra parola-gag, immagine e una narrazione molto razionale, quasi romanzesca, con tanto di divisione in capitoli. Appunto un equilibrio che forse non era più recuperabile e che Anderson, saggiamente, si è lasciato alle spalle, per addentrarsi in un modo di girare più fluido, ma proprio per questo meno scandito, più erratico. Non a caso il protagonista è un oceanografo regista, espediente metacinematografico che Anderson usa per concentrarsi sulla sua idea di visione senza perdere di vista la narrazione e il suo divertimento di commediante. Già ne I Tenebaum avevamo una figura di regista demiurgo in un Gene Hackman che pur nel rifiuto dei suoi familiari rimaneva nell’ ombra il “deus ex machina” che ne guidava i destini (o meglio la coazione a ripetere). Ma appunto Anderson qui ha deciso di rompere quell’ equilibrio delle componenti del film precedente, l’elemento metacinematografico deve entrare in conflitto con quello narrativo, non riassorbirsi completamente dentro di esso. Anche la scrittura registica muta sensibilmente: numero ben maggiore di movimenti di macchina, una divisione in capitoli che non rimanda più al romanzo, forma compiuta e chiusa in sé, ma al diario di bordo, che si deve perennemente riaggiornare, in potenza senza fine. La casa set dei Tenenbaum che diventa qui una nave, una dimora che non poggia su qualcosa di stabile, ma galleggia in balia di una materia quantomai fluida e instabile (abitata da creature magnifiche, ma anche molto pericolose). Steve Zissou, diversamente dal Tenenbaum padre di Gene Hackman non è un demiurgo riuscito, che dirige le vite dei figli anche da assente e nonostante il disprezzo degli stessi, ma piuttosto è un disperato manipolatore, vicino al declino, ossessionato dalla morte (lo squalo giaguaro cui dà la caccia), incapace di ritrovare quel tocco (artistico) che gli ha consentito di entrare in contatto profondo con la realtà degli oceani.

Forse l’evoluzione poetica di Anderson è tutta nel raffronto tra le due figure di patriarchi presenti nei due film. Padre fallito, ma ancora incombente sui figli e capace di salvare la propria famiglia (e sé stesso) da quella malinconica atmosfera che aleggia ne I Tenenbaum, Gene Hackman. Padre fallito, regista in disarmo, completamente in balia degli eventi, per usare una terminologia marinaresca alla deriva nel suo stesso ultimo film Bill Murray. Il primo è colto nel momento del riscatto dalla sua condizione regista carnefice, il secondo in quello del più completo fallimento. Wes Anderson ha il pregio di rispecchiarsi completamente nel suo Achab, e di esplicitare la costruzione metacinematografica che permea la pellicola (e forse il suo cinema), rinunciando alla compattezza delle precedenti pellicole. Certo poi esagera in astuzie, ammicca troppo furbescamente tramite i dialoghi e quasi disarticola il suo film, meno corale del precedente e in cui le molte figure di contorno non sempre si amalgamano al meglio, ma ha il pregio di farlo in una struttura programmaticamente disarticolabile, dando alle sue immagini una notevole densità registica. All’inizio si parlava della continuità stilistica riscontrabile sempre in un regista autore e abbiamo già detto della presenza in tutte le pellicole di Wes Anderson di una figura paterna-registica, tra il “deus ex machina” e il tiranno cialtrone e ineffabile. Ebbene per concludere vorremmo sottolineare come un’altra immagine alla fine ritorni sempre nei film di questo autore: Quella di un’immersione (in una piscina o nell’Oceano poco importa) nell’ acqua, che qui diventa “leitmotiv” figurale dell’intero film. In cosa ci si immerge? Nell’ inconscio? In un universo ignoto e metafisico, come sottolineano le animazioni stop motion di Henry Selick? Il dilemma probabilmente non è risolvibile e la metafora mantiene la sua ambiguità e la sua polisemia. Ma non ci sarebbe da stupirsi se questa immagine diventasse simbolo dell’ossessione registica di Anderson e dei suoi personaggi. E forse la forma un po’ troppo scompaginata, limite evidente di questo affascinante film potrebbe diventare il segno di un’apertura nella scrittura registica del suo autore. Attendiamo con fiducia.

di Jacopo La Palma