Ancora guerra, ma stavolta raccontata con le armi dell’ironia dal regista spagnolo Fernando Leòn de Aranoa in Perfect Day , ambientato nei Balcani del 1965, a conflitto appena finito. Una movimentata, tragicomica avventura, assolutamente da non perdere, basata sul romanzo del Medico senza Frontiere Paula Farias, affidata agli strepitosi Benicio del Toro e Tim Robbins con Mélanie Thierry e Olga Kurylenko, quattro operatori umanitari impegnati a rimuovere un cadavere da un pozzo per evitare che contamini l’acqua provocando epidemie.
La squadra è guidata dal carismatico Mambrù (del Toro), una giovane e ingenua nuova arrivata dalla Francia (Thierry), l’incontenibile B (Robbins) allergico alle regole e una collaudata, fascinosa e disinibita volontaria (Kurylenko) che le regole deve farle rispettare. Dopo una rocambolesca serie di eventi i quattro capiranno che il loro compito è più difficile del previsto, in un paese in cui anche trovare una corda sembra un’impresa impossibile.
“Noi siamo gli idraulici della guerra” dice uno dei protagonisti. Al regista interessava entrare in un conflitto disarmato, dove l’energia e l’umorismo sono usati come meccanismi di difesa, di distacco da tanto orrore. Gli attori del film che hanno vissuto a Sarajevo durante quella guerra cercavano di esasperare il miscuglio tra dramma e umorismo. I morti possono continuare a uccidere, per gli operatori umanitari contano i vivi.
Cosa è cambiato in questi venti anni? “Oggi tutto è molto più difficile, la guerra non ha più regole, non ci sono più sicurezze, sparano anche sui feriti nelle ambulanze” spiega il regista, a Roma per presentare il film. Non ha volutamente filmato la retorica della guerra, raccontando il momento di transizione, quando si firmano i trattati di pace. “Mi permetteva di spiegare meglio la natura umana, la sua irrazionalità – dice-, mostrare la frustrazione degli operatori umanitari quando non possono risolvere un problema. Il loro eroismo è saper continuare ad andare avanti, passando al problema successivo, senza autocommiserazione”.
Per i suoi film ha lavorato spesso al loro fianco, a cominciare proprio da quel conflitto in Bosnia. “E’ un lavoro di grande importanza sociale, ma non ha mai interessato troppo il cinema e i romanzi. Ho seguito anche Medici senza Frontiere in Africa, mi interessava molto la loro ‘routine’. Il romanzo è stato il punto di partenza, ci ho aggiunto i miei ricordi, le mie esperienze. Ho trasformato la poetica del protagonista in azione, la ricerca infinita di una corda mi sembrava una buona metafora”. Non ha una ricetta per sconfiggere la guerra ma, spiega, “i problemi vanno risolti a partire dalla popolazione locale, dalla loro collaborazione, a prescindere dagli interventi militari, senza armi si capisce di più la gente”.