Ci sono storie difficili da raccontare, ci sono grida gravose da ascoltare, come quelle di una moglie che apprende nei dettagli la mutilazione e l’uccisione del proprio marito; grida che si disperdono nell’etere, grida che si condividono, che uccidono dentro. C’è una giustizia inventata per piacere personale, un’altra per punire, e un’altra ancora per riempire la nostra miseria: quella giustizia arbitraria che ci permette di porre fine ad un’altra vita per far sentire noi un po’ più vivi, parte di qualcosa che non esiste. In Sud Africa, dopo la caduta del regime di apartheid, i nuovi leader cercarono di scoprire la verità sugli orrori perpetrati sui neri, offrendo amnistie in cambio di confessioni. Il regista di Un tranquillo weekend di paura John Boorman si fa portavoce limpido e soave di tali confessioni e, attraverso le candide mani di Juliette Binoche, ci conduce in un inferno sulla terra, all’interno di un orrore inoculato con una dolcezza femminea e materna. Ci presenta un anziano di colore, che scandisce le generazioni del suo albero genealogico con i rintocchi di un bastone: lui “è” il tempo che non dimentica, nemmeno il fatto che l’uomo stesso, uccidendo il suo unico figlio, ha spezzato la sua staffetta verso l’eternità. Ora quel testimone, un bastone lavorato e levigato, passa a Langston Whitfield (Samuel L. Jackson), giornalista del Washington Post, mandato in Sud Africa non perché semplicemente parlasse con ‘qualche poliziotto bianco che picchia e uccide un nero’ (per quello non è necessario allontanarsi tanto dall’America), ma per ascoltare la voce di una terra, il lamento di un paese ferito. 

E se Jackson è il giornalista distaccato e freddo, almeno inizialmente, la Binoche è una radio-cronista direttamente coinvolta nei fatti, e non solo per essere un”Africaner’, una nativa, ma anche perché nella sua famiglia il razzismo è tuttora vivo e vegeto. Il film di Boorman scorre leggero, a tratti interrotto da un singhiozzante e spiazzante montaggio, ma i protagonisti sono professionali, presenti e dotati di una capacità di leggerezza interpretativa in un terreno minato. Più volte è tuttavia il sentimento sociale e umano a prendere la parola nel racconto e lo fa con suoni e immagini: quando i carnefici vengono giudicati, essi assumono una diversa identità: condottieri di popoli prima, esecutori di volontà superiori poi. Basta togliere dalla polvere il libro di George L. Mosse Le origini culturali del Terzo Reich, per tentare di dare una risposta al pianto di una moglie o di una madre che chiede ‘perché?’. Quando l’ideologia è un virus, una malattia, un contagio che provoca la perdita della propria identità, essa agisce dalle viscere della società e si espande, soffocando la ragione di un intero popolo. Per chi era addormentato in quella mortale e genocida illusione, dopo il risveglio, è difficile accettarsi, ci si scopre vittime di un’ipnosi coattiva e non resta che la morte. “L’ho fatto per il mio paese” è la frase riparatrice di un orrore perpetrato in totale assenza di ragione, quando l’odio si fa carne e sangue. Quante marionette di un’ideologia ha avuto la storia, si chiederebbe il sottaciuto co-autore di Buongiorno, notte, Massimo Fagioli? Quante ne avrà il futuro? Difficile a dirsi, almeno quanto l’estorcere una confessione a titolo gratuito. La verità per l’uomo bianco è come una bellissima donna di colore: egli può abusarne, ma non la renderà mai sua compagna per la vita.

di Alessio Sperati