Sedicesimo secolo. Utopia e guerra, lucide follie e volontà di potenza. Quelle del re Sebastiano, portoghese nipote di Carlo V, che fu il “Re Atteso” prima di esserci e il “Re Nascosto” quando non ci fu più, che voleva la pace attraverso la guerra, che guardava troppo in alto, follemente in alto per i suoi pragmatici consiglieri, che sparì, sul campo di battaglia, giovanissimo, senza lasciare neppure il suo corpo a testimonianza della sconfitta, che fu amato come un dio e odiato come un tiranno e che fu un mito, nella luce e nel buio, quasi più che un uomo reale. Curiosamente sia nel mondo europeo che nel mondo musulmano. Dunque un giovanissimo di qualche secolo fa di fronte al novantaseienne Manoel de Oliveira che di lui ci racconta in O Quinto Império presentato alla scorsa Mostra veneziana fuori concorso ed ora, nella nostra estate profonda, in arrivo sugli schermi con una versione originale (ovviamente con sottotitoli) che permette di gustare il dolce e aulico portoghese dei grandi interpreti (Ricardo Trepa, Luis Miguel Cintra, Gloria de Matos) che regge quasi interamente su di sé il peso di due ore di rappresentazione più teatrale che cinematografica, che spinge alle estreme conseguenze (a tratti agli eccessi) del cinema di de Oliveira, dei suoi ritmi e della sua staticità. Insomma difficile e seducente ma mai accattivante, piuttosto impervio, rigoroso, appena oscuro, metodicamente claustrofobico, chiuso com’è (per le due ore piene della durata) negli spazi troppo ampi e vuoti di un castello mai a misura d’uomo.

D’altra parte il film deve leggersi come uno squisito esercizio di stile e non meno di etica, fedelmente ancorato all’ispirazione del teatrale El-Rei Sebastiao di José Régio che ha raccontato con poderosa fantasia e utopica ambizione, ossessioni e “destino di morte”, cecità e slancio di questo re che per molti fu solo un pazzo, lontanissimo e incomprensibile per il suo popolo. De Oliveira ha tradotto alla sua maniera, in un linguaggio classico che implica un continuo controllo dell’espressione, un continuo contenimento, un anelito all’essenzialità sposato al gusto intrigante del mistero. Una realizzazione costruita strada facendo. Come lui ha raccontato: «Sul set non a tutti era chiaro, in certi momenti, ciò che si diceva o si faceva e io ho lavorato perché tutto fosse chiarissimo solo agli addetti ai lavori e dopo, di conseguenza, agli spettatori. E con questo voglio dire che lavoro in modo molto diverso dai registi di oggi che realizzano i film come sotto delle droghe, tra effetti speciali, adrenalina e fiumi di dialoghi. Per cui la gente esce dalla sala ma alla fine è stordita e le troppe parole sono uguali al nulla, la gente non ricorda più nulla». Qui, invece, le parole sono fiumi che ci trascinano tra le pieghe di coraggio e codardia, sogno e prosaicità, verità e menzogna, fragilità e forza, ma quasi nulla del loro scorrere si riesce a dimenticare. Meno che mai i colpevoli di una storia in cui tutti sembrano colpevoli e innocenti insieme. Ma, per de Oliveira, i colpevoli siamo noi perché «Nella civiltà sta gran parte della colpa. Nella civiltà che ci toglie il sapere, in qualche modo, un sapere che oggi arriva dall’Oriente, un sapere su cui si è costruito, tra l’altro, il sapere occidentale, nella società di oggi che ci trascina verso un nuovo Medioevo». E il sottotitolo Ieri come oggi non è che una sintesi di tutto questo.

di Silvia Di Paola