La stampa americana lo aveva annunciato come il film capace di scuotere nel profondo il potente ed indiscusso processo produttivo hollywoodiano, avvalendosi addirittura il merito di raccontarci tutta la verità sulla rutilante e discussa città del cinema. Eppure Hollywoodland delude amaramente offrendoci l’illusione di una verità barattata con una serie di moralismi coniugati in perfetto stile old america. Ispiratosi alla vita e alla misteriosa morte di George Reeves, divenuto famoso per aver interpretato dal 1951 la serie televisiva Adventures of Superman e trovato morto otto anni dopo nella sua camera da letto in seguito ad un colpo di arma da fuoco, Allen Coulter perde l’occasione per un buon esordio, abbandonando la strada narrativa dell’indagine per rifilarci una lezioncina poco originale sui pericoli e le insidie della fama. Posto che qualcuno possa credere ancora nella perfetta ed intatta cornice dello star system, ricorrere ad una “antica” vicenda per narrare un’odissea umana vissuta nell’anelante desiderio di raggiungere una notorietà sfuggente ed effimera poteva ancora trovare una causale stilistica e narrativa, ma questa non è mai stata l’intenzione originaria. Nonostante la volontà di creare un mondo parallelo che gravita attorno alla frizzante esteriorità del cinema, e che da questa viene influenzato e spesso annientato, è evidente la non volontà di affrontare con perizia un discorso più particolareggiato e intellettualmente malizioso. 

Coulter ci inganna amabilmente attraverso una comunque splendida interpretazione di Adrien Brody, capace con la sua unica presenza scenica di rende accettabile l’80% del film e, probabilmente, con la parte più consona mai offerta fino a questo momento a Ben Affleck( per l’occasione visibilmente appesantito e con la sua oramai riconoscibile monoespressività). La sensazione è che gli americani sembrano aver preso gusto a mettere in piazza “gli affari di famiglia”, come a dimostrare la loro levatura morale nell’ ammettere i lati oscuri di una società che in fin dei conti difendono a spada tratta oggi più che mai. Ma anche se animati dalle migliori intenzioni, questo film dimostra come non sia assolutamente sufficiente spolverare un caso del passato, cercare di assumere un tono ed un punto di visto fintamente analitico e critico per ottenere successo ed approvazione. Perchè questo accada non si può fare affidamento solo sulla volitiva mascella del bello di turno, ma occorre munirsi di un linguaggio onestamente coraggioso per raccontare la verità per come è stata mostrata e per come potrebbe esser stata celata. Basta fare un tour tra i falsi miti che Hollywood ha costruito per comprendere fin dall’inizio il destino a cui sembravano esser votati, il più delle volte in modo assolutamente consapevole. In ultima analisi, non si sentiva veramente la mancanza di un film che si assumesse il compito di rinverdire l’eterno e ben noto refrain, “Non è tutto oro ciò che riluce”.

di Tiziana Morganti