Probabilmente Luc Besson fu uno di quei giovani lettori che crebbero appassionandosi con indiscussa fedeltà alle avventure di Michel Vaillant apparse per la prima volta tra le pagine della rivista Tintin. Una vera e propria folgorazione che dal 1957 colpì l’immaginario dei francesi, in Italia si dovette aspettare fino al 1963, trasformando l’eroe nato dalla matita di Jean Graton nel protagonista di una delle più celebri e fortunate serie del fumetto sportivo. Un amore giovanile che il regista francese ha celebrato in una sceneggiatura affidata alla realizzazione tecnica di Luois Pascal Couvelaire , al secondo lungometraggio dopo l’esordio nel 2001 con “Sueurs” . Ed è così che in “Adrenalina Blu” il fantastico mondo di Vaillant (Sagamore Stévenin), accompagnato dal fragoroso rombo di bolidi da Formula Uno, prende vita tra un rally e la storica 24 ore di Le Mans dotato di personaggi fissi (tra cui notiamo la presenza di Diane Kruger nel ruolo di Julie Wood), e di un nemico storico e misterioso che, secondo la migliore delle tradizioni, cercherà di strappare l’onore e la vittoria finale. Un intreccio narrativo assolutamente prevedibile e fumettistico, scelto da Besson e da Couvelaire quasi per timore di apportare eccessive innovazioni ad un prodotto trasformatosi in vera leggenda editoriale, ma che non ha sicuramente contribuito alla realizzazione di un film quanto meno godibile.
La minuziosa precisione dei disegni di Graton, lo stile del racconto caratterizzato quasi da vere e proprie inquadrature cinematografiche e la grande fedeltà delle ambientazioni sono state proiettate con assoluta perfezione sul grande schermo, privandole, però, di animazione. Animazione certo non intesa in quanto movimento, ma come contenuto, anima, passione ed emozione. Durante la proiezione di “Adrenalina Blu” si ha l’impressione di assistere ad uno spettacolo realmente privo di qualsiasi interesse emotivo, dove un prevedibilissimo lieto fine si percepisce fin dalla prima ora ed un unico e sentito apprezzamento può essere rivolto all’obbiettiva bellezza della meccanica a quattro ruote. Se l’aspettativa è quella di provare il brivido della velocità, l’inaspettato ed il coinvolgimento si è destinati a rimanere seriamente delusi. Nulla da eccepire sulla qualità registica di Couvelaire, data anche la sua esperienza nella direzione di 500 cortometraggi pubblicitari ed i probabili suggerimenti ricevuti dallo stesso Besson, ma il cosiddetto “nocciolo della questione” si annida nel principio secondo il quale saper utilizzare tecnicamente una camera non vuol dire necessariamente saper produrre e fotografare emozioni. Avere l’ambizione di trasformare un universo di carta e disegni in pellicola per poi continuare a lasciarlo morire nella sua realtà di sola immagine non ha realmente alcun senso.
di Tiziana Morganti