Elegante, raffinato e suntuoso: questo il Vanity Fair di Mira Nair che, tornata di nuovo al Lido dopo il leone d’oro ottenuto nel 2000 con Monsoon Wedding, si confronta ora con un classico della letteratura inglese dalle evidente influenze indiane. Il romanzo scritto da William M. Thackeray nel 1848 e che ci ricompone con particolare efficacia la struttura classista della società anglosassone, rivive oggi nelle ambientazioni assolutamente probabili e non artefatte desiderate e studiate attentamente dalla regista. Un insieme ambientale costruito prestando particolare attenzione a quegli elementi caratteristici dell’abbigliamento e delle usanze giornaliere che erano alla base di un’Inghilterra comunque affascinata dall’India, sua colonia e terra di conquista. Una vicenda che, pur dovendosi concentrare sul percorso personale di Becky, eroina indipendente abbagliata dal desiderio di conquistare una rapida scalata sociale, basa il suo punto di forza proprio su di una scenografia ed una costumistica degna di una ricostruzione teatrale (gli inserti di ambientazione indiana sono carichi di fascino fiabesco ed irreale). Eppure, al di là del puro piacere visivo, Mira Nair non riesce a dotare la sua opera di una spinta emotiva efficace. Trascorsa la prima mezz’ora in cui si viene affascinati dalle ambientazioni e dai merletti che ci trasportano, improvvisamente, in una tipica atmosfera alla Jane Austin, la seduzione s’infrange contro l’andamento eccessivamente lungo della vicenda (due ore e quaranta) attraverso la quale si assiste, sorprendentemente, ad una rarefazione incomprensibile del personaggio principale. Reese Witherspoon (La rivinvita delle bionde) sembra non vestire con credibilità i panni di Becky Sharp, ma più di ogni altro elemento, lascia del tutto stupiti non solo la mancanza di un suo personale background ma, in modo ancora più allarmante e negativamente influente, l’assenza di uno sviluppo e di una evoluzione della sua personalità. Una particolarità che risalta con maggior evidenza proprio perché, invece, circondata da personaggi che, pur apparendo con minor continuità ed usufruendo di uno spazio narrativo limitato, riescono a rendere con maggior impatto il cammino evolutivo od involutivo a loro affidato. Assolutamente degne di nota le prove attoriali di James Purefoy (Resident Evil, Il destino di un cavaliere) e di Bob Hoskins (Chi ha incastrato Roger Rabbit, Hook), le quali rendono maggiormente godibile un film che, pur avendo tutte le carte e le caratteristiche della grande produzione, si accontenta di essere definito come un prodotto mediamente gradevole.
di Tiziana Morganti